Povertà tra i minori ed esclusione sociale sono questioni ormai da tempo al centro delle politiche dell’Unione Europea. Il 20 febbraio 2013 la raccomandazione della Commissione europea “Investing in children: breaking the cycle of disadvantage” ricordava che nella maggior parte dei Paesi membri i minori sono più a rischio di povertà ed esclusione sociale del resto della popolazione, e per questo vanno tutelati in primis come individui ma anche mediante il supporto all’intero nucleo familiare. Un obiettivo, quello della tutela dei minori, che passa necessariamente attraverso un’ampia gamma di politiche – dal sostegno al reddito familiare fino all’istruzione e all’inserimento lavorativo dei genitori – e costituisce per la sua rilevanza uno dei pilastri del Social Investment Package.
Il SIP, elaborato dalla Commissione nel 2013, indica infatti tra gli obiettivi prioritari degli Stati Membri nell’ambito della strategia Europa 2020 la lotta alla povertà e all’esclusione sociale dei minori, promuove l’attuazione di un intervento multi-dimensionale e guida i governi al migliore utilizzo dei fondi europei. L’obiettivo dell’Europa è sviluppare una strategia integrata – composta da una combinazione di politiche universali e selettive – basata su tre pilastri: assicurare l’accesso adeguato alle risorse; fornire servizi di qualità a condizioni accessibili; e garantire il diritto dei beneficiari di partecipare alle scelte. Per questo, già nel 2013 la Commissione invitava a rafforzare gli strumenti di governance e monitoraggio dei risultati, e a fare un migliore uso degli strumenti che l’Unione Europea mette a disposizione in collaborazione con gli stakeholder nazionali e locali.
Politiche child-friendly: il report 2013
A circa un anno dall’appello della Commissione per “spezzare il ciclo dello svantaggio” che inizia da bambini e si “trascina” lungo tutto l’arco della vita, lo European Network of Independent Experts on Social Inclusion – un gruppo selezionato di esperti sui temi della povertà ed esclusione sociale che informa e collabora con la Commissione nella definizione delle politiche – ha pubblicato il rapporto annuale che offre una sintesi della situazione dei 28 Stati membri più 6 paesi extra-UE (Macedonia, Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Serbia, e Turchia).
Il documento descrive e compara le politiche attuate nei diversi paesi e, come mostra la figura 1, li suddivide in base alla gravità del rischio di povertà minorile. Tra i paesi maggiormente a rischio di povertà ed esclusione sociale per i minori tra 0 e 17 anni (40-52%) troviamo Latvia, Ungheria, Romania e Bulgaria, seguiti da Gran Bretagna, Lituania, Spagna, Croazia, Irlanda, Grecia e Italia, in cui il rischio riguarda dal 31% al 35% dei minori. Si classificano bene – con un rischio medio, tra il 22 e il 30% – Estonia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Slovacchia, Malta, Polonia, Portogallo e Cipro, mentre i “primi della classe”, con bassissimi livelli di rischio di povertà tra i minori, sono Finlandia, Danimarca, Svezia, Olanda, Germania, Repubblica Ceca, Slovenia e Austria.
Essere bambini in Italia
Secondo l’ultimo Atlante dell’Infanzia, la pubblicazione annuale di Save the Children Italia che “fotografa” la condizione dei minori nelle diverse aree del nostro Paese, sono circa 2.5 milioni i bambini e gli adolescenti che, soprattutto nelle regioni del Sud, vivono in condizioni di deprivazione materiale – ma anche culturale, abitativa, educativa, sociale e relazionale – mentre ben un 1 milione vivono in povertà assoluta. Con il 33,8% dei minori fino a 17 anni a rischio di povertà ed esclusione sociale il nostro Paese si colloca all’interno del rapporto della Commissione in una fascia di alta criticità.
Gli esperti del Network riconoscono il tentativo di introdurre nuove politiche per combattere il rischio ma ne imputano la riuscita insoddisfacente alla scarsa integrazione tra gli interventi e alle debolezze nell’implementazione. Il consiglio degli esperti è quello di elaborare target precisi rispetto a povertà ed esclusione sociale a livello nazionale e sub-nazionale, e lavorare per il miglioramento del sistema di monitoraggio delle politiche e dei risultati seguendo un approccio di valutazione dell’impatto sociale poiché – sottolinea il rapporto – il problema risiede non tanto nel riconoscimento giuridico dei diritti dei minori quanto nel loro effettivo rispetto. Sono infine da attenuare le marcate disparità territoriali – regionali e locali – di nazionalità e di genere.
Mentre i paesi a basso e medio rischio sembrano privilegiare politiche di stampo universalistico, nei paesi ad alto e altissimo rischio continuano a prevalere misure selettive. Le politiche a sostegno del benessere dei minori dovrebbero essere ispirarsi all’idea di universalismo progressivo – che prevede che tutti i minori siano sostenuti ma che quelli con bisogni particolari vengano supportati più degli altri – al fine di produrre un’interazione bilanciata tra politiche universali e selettive, specialmente nel tentativo di contrastare i drammatici effetti della crisi economica.
Per quanto riguarda il sostegno al nucleo familiare, e in particolare l’attaccamento dei genitori al mercato del lavoro, l’Italia si colloca sorprendentemente tra i paesi con una percentuale più bassa di minori che vivono in famiglie in cui nessun membro lavora. Con il 6,8% dei minori tra 0 e 17 anni appartenenti a un nucleo familiare senza alcun occupato, l’Italia si “classifica” meglio di paesi come la Francia (7.2%) e la Spagna (12.3%), ma anche la Svezia (10.1%), il Belgio (12.9%) e la Gran Bretagna (16.2%).
Certo si può migliorare, e gli esperti chiamati dall’Europa consigliano una fiscalità più progressiva, la tassazione dei patrimoni e l’abbassamento dei costi del lavoro, in particolare per aumentare le opportunità delle donne nel mercato del lavoro. Integrando poi queste misure con un sistema efficace di sostegno al reddito e maggiore qualità e diffusione dei servizi si favorirebbe una migliore conciliazione tra compiti di cura e oneri lavorativi. Se nell’ambito del work-life balance e dell’ECEC – Early childhood education and care l’Italia ha bisogno di sviluppare servizi facilmente utilizzabili come “one-stop-systems” e che vengano incontro alle reali necessità delle famiglie, il vero tasto dolente è costituito dalla mancanza di un sistema di reddito minimo nazionale, che a sua volta stimolerebbe positivamente lo sviluppo di politiche universali e selettive a livello regionale e locale.
Cosa si può fare?
Possiamo utilizzare meglio le risorse che l’Europa ci mette a disposizione? Secondo gli esperti sì, individuando priorità strategiche e target specifici, elaborando approcci integrati e aumentando la coordinazione orizzontale e verticale, migliorando il monitoraggio e infine coinvolgendo maggiormente i beneficiari e i soggetti e le organizzazioni che li supportano nei territori.
Ecco le “priorità chiave” indicate dal rapporto per il nostro Paese:
- introdurre uno schema di reddito minimo capace di stimolare l’intervento regionale sia di stampo universalistico che selettivo, come parte dei sistemi di welfare locale;
- riformare la legge sulla cittadinanza in direzione dello jus soli ed eliminare le restrizioni discriminatorie a oggi esistenti;
- fare confluire nuove risorse pubbliche in un fondo nazionale dedicato al welfare locale, con l’obiettivo di armonizzare i livelli di qualità dei servizi su tutto il territorio nazionale e di migliorare la gestione dei servizi attraverso un sistema di “one-stop-shops”;
- estendere il congedo parentale obbligatorio e introdurre incentivi fiscali a favore dei nuclei mono-genitoriali e del secondo lavoratore in famiglia;
- identificare target nazionali e sub-nazionali per gli interventi, supportati da sistemi di monitoraggio efficaci;
- riformare la normativa fiscale in direzione di una maggiore progressività nella tassazione, prelievo sui capitali e riduzione del costo del lavoro.